Luca Agujari, uno e centomila di Marco Marmeggi
Luca Agujari, uno e centomila di Marco Marmeggi
“Ho 38 anni e il corpo di un vecchio”, mi dice Luca Agujari senza cedere di un millimetro, seduto al bar, nell’isola in cui vive da più di dieci anni. “Non ho paura di morire. Non ho figli, ho sempre fatto ciò che ho voluto e la mia vita non finirà certo dopo la morte”. Chiaro e tondo. Come il cerchio che la tazza di tè ha lasciato sul nostro tavolo. Nasce a Cecina, il 15 gennaio del 1981. Fino all’età di sette anni cresce come un bambino normale, poi incespica e rallenta, prende altre direzioni e si ferma sotto il metro e cinquanta. Scopre di essere affetto dalla Mucopolisaccaridosi, una malattia rarissima e degenerativa. Lui e la sorella sono finiti sulle riviste scientifiche perché sono tra i pochi fratelli al mondo a vivere così a lungo.
È uno spirito pacifico e irrequieto Luca Agujari, un alchimista delle mille strade in una sola, l’espressione assoluta della volontà. “Nella mia vita non mi sono mai chiesto se una cosa potevo farla o meno, mi sono sempre domandato in che modo potessi farla”. È un insegnante, un velista, un musicista, un ambientalista, un volontario del carcere, un consigliere di Legambiente, il fondatore di Diversamente Marinai. Per afferrarne le parti, mi aiuto con le sue braccia, seguendo le linee giapponesi che Alessandro Pellegrini ha colorato sulla sua pelle. Tra gli avvitamenti della matita, c’è un guerriero che cavalca un drago. Decido di partire da qui, dal Demone del dubbio, la voce che sbuca all’ultimo e mette in crisi qualsiasi scelta.
“Un tempo pensavo di dover dimostrare al mondo di essere in grado di fare qualsiasi cosa. Ho scoperto di indossare una maschera, come quella del samurai che ho tatuato accanto al demone, digrigna i denti incutere terrore, ma, alla fine, anche lui ha paura come tutti”.
Mentre parliamo, ogni tanto gli scappa la mano, un accenno di ritmo sul tavolo da cui tira fuori bassi che sembrano campionati. Suona la chitarra, l’armonica, la batteria. Qualsiasi cosa gli passa per le mani, ad un certo punto, prende a cantare. Mi racconta di quando doveva prendere la patente, il padre che gli dà seicentomila lire e lui, invece, esce di casa e torna con due djembe, scordati, ma bellissimi.
Deve essere per questo che all’Elba, dove ha deciso di trasferirsi per lavoro, entra a far parte della Roulotte Music Van. L’estate suona nei locali della movida e dorme in un furgone che ha parcheggiato in un campo vista mare. È un momento magico quello, che finisce, appunto, con una magia. Il gruppo partecipa ad un contest in cui si scelgono le band migliori che andranno ad aprire i concerti del Pistoia Blues, un evento storico che ha portato in Italia personaggi come B. B. King, Otis Rusch, Lucky Peterson. Vincono, caricano il furgone e partono. È il 14 luglio del 2012, sul palco, dopo di loro, il grande Paolo Nutini, scozzese, una voce straordinaria, milioni di copie vendute. Luca sale le scalette, è quasi sera, la piazza si è riempita, non gli capiterà mai più di sentire il suono delle sue percussioni amplificato da migliaia di watt, esploso su una piazza intera.
E il tuo corpo? gli chiedo. Che rapporto hai con il tuo corpo? Luca soffia sulla tazza e ci pensa un attimo. Per rispondermi, mi racconta del giorno in cui è entrato in classe ed ha capito che insegnare sarebbe stato il lavoro della vita. La chiamata per una supplenza all’isola d’Elba gli arriva a ventisei anni, è una giornata di agosto, e lui è in Francia, ad Aix-en-Provence, in ritiro nel Centro buddista Soka Gakkai. Ha sempre avuto dubbi sull’insegnamento, nonostante il diploma Magistrale, nonostante la laurea in Psicologia. E poi, davanti ai bambini, non c’è scampo, vanno dritto all’evidenza delle cose, sinceri e crudeli. Che cosa avrebbero detto del suo corpo?
Alla fine accetta. Per il buddismo, le sfighe e le fortune arrivano sempre nella misura in cui abbiamo anche la possibilità di superarle. Guida fino al porto di Piombino, c’è mare grosso di Scirocco, ma poco importa. Il mal di mare non lo ha mai sofferto, neanche sulle derive, quando tirava Libeccio fuori dal porto di Cecina e gli istruttori lo portavano a fare prove di scuffia al largo. La nave attraversa la baia di Portoferraio. Il cielo è grigio e le colline sono illuminate a chiazze dai raggi che passano le nuvole. È un bel vedere, un bell’avvicinarsi. Schiaccia sull’acceleratore e prova le prime curve, poi la scuola, le poche sezioni, il corridoio da cui si vede il mare.
Il saluto delle bidelle lo riporta indietro di quindici anni, non è mai stato un grande studente, lui, bocciato due volte in terza superiore. L’impatto in classe è devastante. Apre, entra e cammina fino alla cattedra. Porta chiusa, alcuni secondi di silenzio, poi, le prime risate e le prime parole, spontanee e dirette. È basso, è strano, è arrivato il nano.
Luca mi guarda e sorride. “Sai a cosa ho pensato in quel momento?” mi chiede. “Da piccolo, quando avevo la loro età e camminavo attaccato alla gonna di mia madre, la cosa che mi faceva più male non era il modo in cui le persone mi guardavano. Era il pensiero di mia madre, la sua voglia di dirmi: amore mio, non è niente, non ci badare, ti proteggo io. Ecco, ero più preoccupato per mia madre che per me. Ho sempre pensato che fosse lei ad aver bisogno di essere protetta, non io. Ho imparato a non aver paura di raccontare chi sono grazie ai miei alunni”.
E allora, da quel giorno, Luca sa cosa deve fare. Li invita a sedere e ci parla, gli racconta chi è, spiega loro tutto quello che vogliono. È l’acqua della loro curiosità, disseta la loro voglia di conoscere. A quel punto è fatta. Diventa il loro maestro con pochi passaggi di parole e la via si mette in piano, pronta per regalare una fantastica discesa a tutta la classe.
E ora? Che cosa sogni adesso?
Luca mi guarda, gli occhi brillano. “Da quando ho incontrato Federica, ho tutto quello di cui ho bisogno. Ho trovato il pezzo mancante e sogno già”.
È una sera di qualche anno prima, dopo una giornata alla guida, raggiunge un corso di formazione sul Lido di Arenella, tra Salerno e Agropoli. È in ritardo, la hall dell’albergo è ancora vuota, nella sala da pranzo un tavolo con la tovaglia è apparecchiato con un piatto rovesciato sull’altro. Ha fame e si siede, in sottofondo le note di una canzone ballano coi lampadari. In un angolo ci sono alcune poltrone di cuoio ribattute con i chiodi di ottone, rivolte verso un tavolinetto. Al primo sorso di vino, si accorge che da uno degli schienali sbuca una valanga di riccioli neri. Al secondo, Federica è in piedi, pronta per tornare in camera. Basta arrivare al terzo, vederla camminare e riconoscere i versi della canzone che riempe la stanza per capire. Non c’è bisogno di andare sulla Luna per essere felici.
Il cantante è Paolo Nutini e la canzone parla di lui.
Stavo accovacciato di fuori, sotto la pioggia cadente
Provando a costruire una barca a me stesso.
Poi ho galleggiato verso te, mia cara
Con la sera sulla mia coda.